Intervista a Luigi Lo Cascio «Recito da atleta Sogno Bruce Lee» di Boris Sollazzo

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«Recito da atleta Sogno Bruce Lee»
di Boris Sollazzo

L’attore è sbocciato con «I cento passi» e «Noi credevamo». Ora gira il film per la tv sul maratoneta Dorando Pietri

È il volto del cinema civile più importante degli ultimi anni. Attraverso il suo volto abbiamo conosciuto l’eroismo allegro di Peppino Impastato («I cento passi ») e la crudeltà rivoluzionaria di Mario Moretti («Buongiorno, notte»), l’idealismo dello psichiatra “sessantottino” Nicola («La meglio gioventù») e il militante repubblicano del Risorgimento Domenico («Noi credevamo»). Ora è sul set con il suo mentore cinematografico Marco Tullio Giordana per «Romanzo di una strage», su piazza Fontana. Ma con il suo viso è stato anche attore comico o di commedia nera (per Avati e Piva) o di noir (Torre e Puglielli). Compagno d’accademia di Gifuni e Boni, ha vinto in questi giorni il premio Volontè,  consegnato al festival «La valigia dell’attore», diretto dalla figlia del grande attore, Giovanna Gravina, che si tiene nell’arcipelago della Maddalena. L’abbiamo incontrato lì e si è raccontato.

Cosa faceva Luigi Lo Cascio prima di diventare attore?
Ho studiato medicina due anni, pensavo di fare lo psichiatra. Ma volevo anche fare dei viaggi per seguire l’atletica leggera con i miei amici del Cus Palermo, ero un buon mezzofondista.
Pur di andare a vedere gli europei di Stoccarda, i mondiali di Helsinki, le Olimpiadi di Barcellona, ci autofinanziavamo con il teatro di strada. Eravamo un gruppo di cinque-sei persone e ci chiamavamo Le ascelle, e facevamo pantomime senza quasi parole, perché dovevamo essere “internazionali”. Per fortuna non rimane nulla di quegli sketch! Tutto nasceva dal fatto che a Palermo, ai semafori, facevamo il juke box umano: con chitarra, bonghi, altri strumenti chiedevamo agli automobilisti quale canzone volessero e partivamo. L’esibizionismo, insomma, c’è sempre stato!

Era un atleta. È per questo che ora per Leone Pompucci
interpreta Dorando Pietri in tv?
Forse sì, anche perché a teatro in uno spettacolo lungo rischi di avere la stessa scissione del maratoneta: una parte di te ti chiede di fermarti, l’altra di continuare, come successe a lui. È una figura affascinante la sua, era un italiano mingherlino che sfidava i giganti americani anglosassoni, più ricchi e meglio nutriti. Il sogno del maratoneta è anche questo.

Il festival in cui è stato premiato si chiama «La valigia
dell’attore». Lei nella sua cosa ci mette?
Amo la metafora della valigia dell’attore. Penso al baule: non solo un oggetto in cui si portavano gli effetti personali, ma anche i costumi di scena: quello da borghese, la tenuta da giardino, l’abito da sera, il frac, un intero repertorio. In questa scatola puoi trovare secondo me i trucchi, come quelli del mago, per interpretare la maschera. Dal punto di vista della professione penso che non esista una valigia che possa conteneredegli arnesi universali, perché vanno forgiati di volta in volta rispetto a ciò che affronterai. Materialmente, nella mia, porto dei medicinali, ma più per scaramanzia che per ipocondria. E poi dei libri. Non ho bisogno di molto, perché in camerino ripeto ossessivamente la parte.

Come Volontè, è eclettico e impegnato. Ha raccontato
la storia d’Italia con il suo viso.
I cineasti che ho incontrato e mi hanno scelto mi hanno dato l’opportunità di variare. Penso a Giordana, Piccioni, Martone, registi con cui tra l’altro sono anche amico. Ma vale anche per gli altri. Poi, non so se è un caso, i film “civili” mi sono riusciti meglio, sono state le mie migliori interpretazioni. Ed emoziona pensare che queste opere forse abbiano cambiato qualcosa o qualcuno: lo sento quando mi dicono «ho scelto Legge dopo “I cento passi”» oppure «ora conosco il Risorgimento grazie a “Noi Credevamo”».

Ha un sogno nel cassetto?
Uno, fin da piccolo: un action movie. Prendevo molto seriamente Bruce Lee, amavo i film di Chen, io, mingherlino e nanetto, sognavo di essere lui. Mi piacerebbe un film in cui affrontare cinque o sei nemici e stenderli, lo confesso. Da piccolo mi allenavo persino a dare i pugni contro il muro, come il divo asiatico.

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